L’Italia sconosciuta da Phaidon

imagesNo, non si tratta, per una volta, della scoperta di un pezzo di patrimonio gastronomico italiano poco conosciuto: la mia è una critica. Mi è capitato più volte di apprezzare gli straordinari libri di Phaidon ma, proprio perché è Phaidon, pretendo molto e in questo caso rimango male.

Nel libro “Where chefs eat”, tanto atteso, dei ristoranti dove vanno a mangiare i cuochi, l’Italia è una macchietta. La “guida” che avevamo tanto atteso, quella dei “veri esperti” come si autodefinisce, è un collage di pochi indirizzi, quasi tutti già conosciuti. E nemmeno tutti così interessanti. Fra questi i cuochi (segnalatori) italiani coinvolti sono pochini: Alajmo, Assenza, Baiocco, Bassi, Beck, Berton, Bussetti, Bottura, Cerea, Cedroni, Crippa, Iaccarino, Lamantia, Lopriore, Marchesi, Oldani, Russo, Scarello. Tra le trattorie romane segnalate Da Cesare a via Crescenzio invece di Cesare a via del Casaletto (sic!) e il bar-à-tapas catalano Tres Porquets indicato come “high-end”…

Con venti pagine l’Italia viene (mal) rappresentata, quaranta per la spagna e settanta per la Gran Bretagna. Barcellona ha una capitolo a sé (e se lo merita) come Parigi.

Occasione mancata.

Menu di persecuzione

mr-creosoteLo so che non è bello chiedere come regalo a Babbo Natale che ti elimini qualcosa, ma io l’ho fatto. Gli ho chiesto di eliminarmi il più possibile il menu degustazione. O meglio dire menu devastazione. La mia persecuzione.

Recentemente, dopo aver scoperto che ristoranti “mito” come i Roca a Girona, più volte elogiati per la loro capacità di coniugare proposte alla carta con un offerta adatta a tutti ai menu per gourmet, hanno capitolato anche loro offrendo solo due menu a scelta, me ne sono capitate di tutti i colori. Il 2012 si è chiuso con offerte di menu di panini, degustazioni di gelati, aperitivi a costruiti in sottomenu… Per non parlare del 2013 che si è aperto con l’obbligo di menu degustazione persino in una griglieria. Là dove cercavo una sontuosa bistecca ho trovato antipasto+un piccolo primo+assaggi di carne gourmet. E i piccoli (per quanto buoni) bocconi più che soddisfare un bisogno hanno aumentato il desiderio.

Ebbene, come in tanti si sono opposti al tris di primi io continuo la mia battaglia contro il menu degustazione. Ma non è solo questione di gusti, è anche il capovolgimento di un modello di ristorazione che dai bisogni del cliente si è spostato ai bisogni del cuoco. Voglia di proporre sé stessi e la propria idea di cucina. Mi chiedo solo se sia un modello ripetibile all’infinito. Anzi, mi rispondo: no.

Si può ancora avere voglia di mangiare uno o due piatti cercando di stare bene, magari perché si è in compagnia e non ci si vuole abbuffare, o ancora più semplicemente si vuole ripetere l’esperienza al pasto successivo…?

In caso contrario più che commensale io mi sento ostaggio.

Marchesi l’innovatore

Ieri, nell’Aula Magna dell’Università di Parma Gualtiero Marchesi ha ricevuto la Laurea Honoris Causa in Scienza Gastronomiche, il giusto tributo per colui che è stato uno dei più grandi innovatori della cucina italiana e mondiale. Il Maestro non è stato solo una figura centrale per il rinnovamento della cucina italiana, ma anche per tutto ciò che intorno alla cucina si è sviluppato. Marchesi è stato uno dei primi chef a diventare personaggio pubblico, a pensare alla cucina come un’arte tra le altre arti (che come tale con esse doveva dialogare e contaminarsi), a pubblicare ricettari che portassero in copertina la sua faccia, a stringere accordi con l’industria alimentare (ultimo il caso McMarchesi), uno dei primi, in altre parole, a vedere la cucina a 360 gradi, andando Oltre il fornello (una sorta di grammatica di cucina uscita nel 1986). Per tutti questi motivi per la cucina italiana è un giorno di festa e noi appassionati non possiamo che dire Complimenti Maestro! pardon Dottore…

Eugenio Signoroni

Gli allievi di Marchesi: la lista ufficiale

Ricevo, attraverso Marco Trabucco, che mi gira una mail dall’ufficio stampa di Gualtiero Marchesi una comunicazione che ha dello straordinario: la lista degli allievi, compilata dal Maestro. Devo dire che recentemente Marchesi mi aveva confessato di essere stato spesso travisato dalla stampa relativamente alle sue opinioni sui suoi ex-collaboratori (anche se di elementi per fraintendere ne ha sempre forniti anche lui, n.d.r.) ma questa lista e i relativi commenti costituisce una grande novità. Che aiuta a mettere ordine nelle informazioni per costruire la storia:

 

“IN CUCINA VALGONO L’ESEMPIO E LA STIMA

Ho sempre creduto nell’esempio e nella possibilità di comunicare e insegnare le cose che ti stanno veramente a cuore. Per insegnare non bisogna avere segreti e incontrare qualcuno che si ponga continuamente delle domande.

Oggi, con Daniel Canzian, capocuoco al Ristorante Teatro alla Scala Il Marchesino, c’è questo scambio virtuoso. Dal 1977, ho conosciuto e lavorato con moltissimi giovani. Ne ricordo alcuni, tra cui:

 

Adolfo Arcangeli

un italiano nato e vissuto in Francia, diventato con me capo cuoco, in cui si riconosceva la scuola francese, quel rigore che aiuta a formare il carattere.

Brendan Becht

mi ha seguito, spesso, nelle mie peregrinazioni all’estero. Oggi, collabora con noi per il Gran Hotel Tremezzo. Un olandese che sa il fatto suo, organizzato, razionale.

Andrea Berton

è stato tanti anni con me a Milano. Poi, la Francia, per aggiungere esperienza e di nuovo a Erbusco, nel ruolo di capocuoco. Un tipo efficiente, molto organizzato, forse un po’troppo duro con i sottoposti.

Gianluca Branca

capocuoco, oggi, ad Erbusco. Lo potrei definire: il palato. Un grande lavoratore. Riesce a fare qualità con qualsiasi tipo di collaboratore.

Massimo Branchi

con lui ho avuto un rapporto di lavoro che potrei definire sorridente. Brava persona, responsabile, in gamba, alla mano.

Paola Budel,

un vero e proprio “mastino”, una donna di grandi risorse, determinatissima che quando ha lasciato il ristorante in Bonvesin de la Riva, a Milano, ha invitato i suoi colleghi, ringraziandoli uno ad uno. Bel gesto. Brava anche ad accettare, in seguito, la sfida di fare il capo cuoco al Principe di Savoia.

Filippo Costa

nel ristorante di via Bonvesin de la Riva si occupava dei primi piatti. Un tipo imprevedibile, a volte pazzarello, ma bravo al punto che gli avevo dedicato gli anelli di ricotta, divenuti anelli di ricotta Filippo.

Carlo Cracco

quando è arrivato era un ragazzo, è stato in Francia e ha ricoperto l’incarico di capo cuoco nel ristorante di Erbusco. Una persona organizzata, carismatica, cerebrale. Credo che l’epiteto di alchimista sia azzeccato.

Enrico Crippa

venne da me ancora adolescente, lavorava in continuazione e se si assentava era al massimo per una mezz’oretta. Andò in Giappone per noi e poi divenne capo cuoco in un ristorante giapponese. Ho ricordi bellissimi di una persona intelligente.

Daniel Drouadaine

è lui che avevo scelto per aprire il ristorante in via Bonvesin de la Riva. Volevo un francese per dar vita alla nouvelle cuisine italiana. In sei mesi è arrivata la prima stella Michelin e dopo un anno la seconda. Daniel è la professione fatta persona, nonostante una certa inclinazione umorale.

Stefano Gariboldi

lo ricordo come la gentilezza fatta persona, premuroso, efficiente, garbato. È stato da Trussardi ed ora è da Peck come responsabile del ristorante.

Antonio Ghilardi

basta dire che, venendo dal ristorante Le Cirque di New York, mi chiese se le salse di base andavano bene. Un vero professionista che non dubita di ciò che fa, ma cerca di seguire il palato del cuoco, avvicinandosi alla mia cucina.

Karsten Heidsieck

arrivato ventenne ha lavorato con me sei anni fino all’incarico di capo cuoco. Molto tedesco, il che significa preciso e colto. Un bel incontro.

Ernst Knam

chapeau!, un pasticcere fantastico che, oggi, ha la sua insegna a Milano.

Pietro Leemann

era contento del nostro rapporto intellettuale, si cucinava e si trovava il tempo di filosofare. Quando partì in Giappone e in Cina lo fece con una mia lettera di presentazione.

Paolo Lo Priore

un cuoco sempre vicino al prodotto, uno che ha il lavoro nel sangue, eccitato al momento di cucinare, capace di dare veramente l’anima. Quando ci vediamo insieme con mia figlia Paola ritrovo il piacere di certe cose, il rapporto creativo con la materia.

Michel Magada

grande scuola alsaziana, siamo stati gomito a gomito per dieci anni. Molto bravo, saldo nel carattere e nella preparazione. Oggi, insegna a Colorno.

Patrick Massera

eccellente professionista, uno capace di dare il là. Creativo.

Fabrizio Molteni

non appartiene per ragioni anagrafiche agli allievi di via Bonvesin de la Riva, ma abbiamo lavorato insieme per un decennio. Per me lui ha una naturale predisposizione a giudicare l’armonia di un piatto.

Davide Oldani

quando finiva di lavorare veniva da me a fare degli extra, è stato molto all’estero, un tipo intelligente e appassionato. Pur tentando strade nuove si concentra soprattutto sulla materia prima. Anche lui come il sottoscritto ha disegnato piatti e posate.

Ernst Rothenberger

tedesco e quindi molto preparato, maestro di cucina, specializzato nell’apertura di grandi alberghi. Siamo sempre in contatto.

Marco Soldati

è un ex allievo in gamba che ha scelto la via dell’insegnamento. Tiene dei corsi alla scuola di Colorno, trasferendo così ad altri qualcosa della mia filosofia. Una bella sensazione.

Paolo Visconti

anche lui bravo pasticcere; ha lavorato con Knam e aperto a sua volta un negozio a Milano. Uomo dolce per lavoro e per carattere.”

Frank Rizzuti, Cucina del Sud

Una delle cene dell’anno più fortemente impresse nel ricordo. A Potenza. Riporto l’articolo che ho scritto sabato scorso per Repubblica:

“La rivincita del Sud, come concetto forte, area geografica, stato dell’anima. Questo viene subito da pensare se ci si ferma a Potenza, da Frank Rizzuti, nel ristorante che porta il suo nome. Perché se è vero che poco più di cinquant’anni fa la prima guida Michelin Italia si fermava a Siena, senza considerare le regioni meridionali, è altrettanto vero che oggi qualcosa sta succedendo, e da qualche tempo si tratta di un vero e proprio movimento, contagioso. Probabilmente per questo Rizzuti, sguardo serio e fisico asciutto, ha voluto mettere un sottotitolo al ristorante che porta il suo nome: “Cucina del Sud”, un modo per rappresentare nel piatto uno stile di vita, un’identità che va oltre la Basilicata. Volente o nolente, lui, la rappresenta anche meglio di altri, perché lavorare qui rompe gli stereotipi. Non immaginatevi infatti il ristorante con vista su coste affascinanti, Rizzuti ha creato il suo posto vicino agli svincoli stradali di Potenza, non esattamente sole, mare e turisti. Eppure è anche questo che rende l’impresa interessante: le dolomiti lucane non sono lontane, qui le temperature si sono già abbassate, e paesaggi e sapori sono diversi. Espressione di un altro Sud, intenso e complesso come le uve aglianico del Vulture, ma che in qualche modo è l’altra faccia della cucina mediterranea.

Lo chef qui ha creato uno spazio tutto suo, da vedere: arredi moderni, un piccolo giardino, luci studiate. Non si ammicca alla tradizione, non si usano paccottiglie romantiche ed evocative, tutto è piuttosto essenziale. Un po’ come lo stile della casa, fra camerieri gentili ma non invadenti, poche chiacchiere e molta sostanza. Per scegliere da un menu che costa circa un terzo di quello di tanti colleghi al Nord: da 30 a 50euro, ma in quest’ultimo caso si tratta di ben otto portate. La cucina è quella di un grande musicista, un bravo esecutore. Siamo pieni di creatori e geni, abbiamo bisogno di musicisti. E Rizzuti, non senza ingegno e idee originali, cucina cose conosciute meglio degli altri. Ed è un bell’esempio di territorio oltre la tradizione: c’è tutto il bagaglio del passato ma le note sono stese su una partitura nuova. Ci sono i peperoni cruschi, il sottobosco delle vicine montagne (riprodotto in un piatto evocativo), le orecchiette e il grano del pane, il pomodoro di fine estate e la carne di agnello. Però poi ti ritrovi un gelato fatto di gnummareddi (involtini di interiora ovine) che guarderesti con diffidenza altrove ma che qui risulta perfetto: la perfetta espressione di un gusto intenso restituito con garbo. Più che creativo lo si definirebbe istintivo, diretto, immediato. Un cuoco che non si fa condizionare, che ama il suo contesto –“e io che voglio rappresentare tutto questo…che cucina potrei fare a Milano..?!”, dice- e lo vuole raccontare. Sa che in qualche modo c’è qualcosa di rivoluzionario, nel nuovo Sud.”

www.frankrizzuti.com

UliassiLab

La crisi, la confusione, quello che ci accade intorno, la capacità di molti all’estero di comunicare meglio di noi ogni tanto ci distraggono. E si toglie attenzione al cambiamento profondo -e straordinario, perché mai visto così- della cucina italiana d’autore. Piccoli grandi passi, riflessioni, consapevolezza, che fanno del quadro nostrano uno dei più interessanti mai visti. Forse oggi solo appannato da una crisi economica che rende la vita difficile a tutti.

Succede poi che un giorno, stai viaggiando, e sei in anticipo sul tempo che ti eri dato. Guardi l’orologio, è ora di pranzo e non sei distante da Senigallia. Un po’ di paura per gli eterni tempi di servizio dell’alta ristorazione -incompatibili con una pausa di un’ora- ma poi la decisione: si va da Uliassi e si fa pranzo veloce. In un attimo le distrazioni scompaiono e l’attenzione viene catturata da una sequenza netta e precisa di piatti giocati sull’olfatto. Il profumo del mare, dell’aria del mare, che si intreccia con la conoscenza del territorio, delle abitudini, dell’identità. Fulminante.

Gambero rosso, acqua di limone, anguria cardamomo e basilico

Mozzarella di Pian del Medico

Prima secca: acqua di vongole, aghe, erbe selvatiche e mandorle fresche

Seppie giovani sporche con granita di ricci di mare, sugo di fegato di seppie ed erbe aromatiche (seconda secca?)

Triglia croccante, zuppa di prezzemolo, rabarbaro candito e acetosella

Mezzi rigatoni resina di rosmarino, pistacchi e bottarga di muggine

Rombo selvaggio alla griglia, melanzana alla brace, sugo di cipollotti e peperoni alla brace, nero di seppia, purea di roscani

Un laboratorio marchigiano e adriatico capace di ritarare i riferimenti in tema salino e iodato, una sequenza fatta di idee forti, sottolineature, accordi e stimoli. Né ricami né svolazzi, i piedi piantati per terra (o nell’acqua). Senza bisogno di spiegare nulla: niente significati nascosti, origini griffate, passeggiate nella memoria, né modalità precise di assaggio. Tutto chiarissimo, intuitivo. E tutto -riuscito stavolta- in un’ora, una delle migliori della mia vita.

La pajata di Scabin

Una delle cose più difficili da trovare è la voglia della cosiddetta “cucina d’autore” (a me questa definizione però non piace per nulla) di cimentarsi con i piatti della tradizione. Che non significa ridisegnarli, scomporli, destrutturarli o alleggerirli. Significa provare a interpretarli rimanendo nello spartito. Musicalmente direi più un leggero arrangiamento che delle variazioni sul tema.

Scabin da tempo ha una sua piola. No, non ha aperto nessuna trattoria, semplicemente si diverte a fare la sua trattoria per gli amici, nel retrobottega. Io arrivo ultimo ma devo dire che ogni volta è una cosa nuova e diversa. Per l’occasione ho avuto modo di provare delle incredibili alici al verde (crude e con una salsa inedita, molto leggera), una esqueixada catalana, il fegato alla veneziana (al contrario) e degli incredibili rigatoni con la pajata (foto Bob Noto). Che chiamo io così ma in realtà erano cannelloni rotti con un sugo di pajatina di agnello, poi arrostita e messa sopra. Buonissimi!

 

 

Alta cucina e/o territorio

Foto Identità Golose

La parola territorio è come il prezzemolo: un po’ ovunque. Usata troppo, a sproposito, sfruttata nel suo potere evocativo. Eppure il territorio è e resta un tema centrale della cucina nostrana, “alta o bassa” che sia. Ovvero, per usare categorie più comprensibili, che si tratti di cucina riferibile a ricette e tradizioni in maniera diretta e schietta o di cucina d’autore, con i tratti più marcati di chi la fa e vuole lasciare il proprio segno. Un tema che risolve (almeno in parte) l’eterno dibattito fra tradizione e innovazione.

Ora, esiste in maniera sempre più evidente un filone di cucina d’autore, di ristoranti che stanno emergendo grazie alle capacità di ristoratori giovani e intraprendenti, dotati di una sensibilità maggiore verso il proprio intorno. Maggiore di chi li ha preceduti. E questo filone ha una sua buona rappresentanza nella capitale. Una strada chiaramente aperta da Antonello Colonna molti anni fa e poi probabilmente rinvigorita (in modo diverso) dall’incisiva idea di “creatività romana” del bravo Riccardo Di Giacinto. Così come dall’importante contributo di Adriano Baldassarre nel Tordo Matto che fu, a Zagarolo (e che non a caso oggi torna a lavorare con Colonna a Vallefredda). Altri poi potrebbero essere i nomi ma mi fermo qui.

In parallelo lavorava ad Albano Laziale ma adesso a Roma, Alessandro Pipero. Capace di scegliere eccellenti compagni di viaggio (Alessandro è uomo di sala, non fa il cuoco) che stanno lasciando il segno, scrivendo pagine nuove e interessanti per la nuova cucina romana. L’ultimo in ordine di apparizione è Luciano Monosilio.

Il suo modo di concepire la tavola è sicuramente romano nello stile ma condito di buone cose dal mondo, soprattutto sul fronte della ricerca dei prodotti (il lardo di patanegra e mosto cotto così come il prosciutto di Cormons D’Osvaldo ne sono un esempio) ma c’è un filo rosso di fondo che tiene insieme il tutto che ha sapore di Roma  e dintorni, una sorta di cifra stilistica. Persino nel petto di pollo maionese ed ostrica, forse uno dei piatti più buoni. Lascia il segno anche il tortellino agnello menta e panna di pecorino, gioco evocativo del piatto più banale. Fuori da tutto questo ragionamento invece un classicissimo rognone con salsa francese, mai così buono in città.

La cosa più sensata che mi viene da dire, però, è che Pipero è particolarmente dotato nel far percepire la ricerca di un piacere a tavola che deve essere anche suo. Nel senso che la sua tavola è proprio quella in cui vorrebbe mangiare lui. Fatta di quei sapori, di quelle attenzioni e di quei dettagli che pochi ristoratori sanno cogliere. Forse perché non si mettono abbastanza nei panni del cliente.