Dao, cinese pettinato

lcomb005Mi avevano parlato in tanti di Dao, nuovo ristorante cinese di Roma, in viale Jonio. Da tempo la curiosità dei romani verso un locale cinese di livello aveva attivato i sensori, alla ricerca di qualcosa che potesse superare i (pochi) nomi affermati: Hang Zhou, Celebrità, Court Delicati e il costoso Green T.

Il posto è molto gradevole, moderno, accogliente. Il servizio attento e preparato, peraltro generoso di spiegazioni. E, cosa più importante, qui non si fa uso di glutammato né di surgelati. C’è addirittura la cucina (quasi) a vista. Eppure qualcosa fa pensare ad una cucina progettata ad uso e consumo di italiani non poi così interessati alla cucina originaria, che hanno piuttosto bisogno di essere rassicurati: “di primo abbiamo delle paste fatte in casa, di riso, come gli spaghetti, le trofie e i cannelloni…cinesi”. E in effetti i gusti sembrano pettinati, addomesticati, lontani dall’intensità di quelli provati a NY o Londra.
Peccato!

Rosti a Roma, ristorante per clienti liberi

logo_centerIn questi giorni si è parlato più volte, qui e altrove, di “menu di persecuzione” o di “tirannia del menu”.Sono rimasto particolarmente colpito invece dall’idea di un ristorante nuovo, che ribalta completamente questa prospettiva: Rosti.
La struttura: tavoli sociali e grandi spazi, con la brace, il forno e lo spiedo a far da sfondo, ne costituiscono l’architettura. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è quanto e come questo luogo sia stato pensato per chi lo frequenta e non per chi lo ha creato. La socialità è un elemento primario: si mangia accanto agli altri, la chiacchiera viene spontanea e le famiglie sono particolarmente ben accette. Fuori, un grande spazio-giardino con giochi per bambini consente di entrare ed uscire e far divertire anche loro. Nessuna formalità nell’apparecchiatura e nella proposta: regole saltate e piatti in ordine sparso (non esiste neanche la divisione in portate: primo, secondo…). Orari elastici per arrivare e mangiare più o meno quando si può, fino a tardi. In tutto questo però grande attenzione da parte del personale che ti segue, si preoccupa, ma non rompe mai le scatole. E soprattutto non pretende nulla da te, meno che mai che tu capisca il locale. Piuttosto te lo spiega.

E’ possibile trovare una propria dimensione, da Rosti. Non si partecipa ad una liturgia ma si vive a tavola un pezzo di vita privata. Di questi tempi (gastronomicamente parlando) mi è sembrato rivoluzionario…

Sarchiapone

Trovare una buona pizza -può sembrare incredibile- non è per niente facile. Per un indirizzo valido ce ne sono almeno una decina capaci di regalarti acidità di stomaco per una settimana. Io a Torino mi ero appena imbattuto nella per me deludentissima “Cammafà” di piazza Galimberti (impasto pesantissimo, ingredienti di poco sapore e ricevuta “non fiscale” che conserverò per ricordo visto che me ne sono accorto troppo tardi). Ma il Sarchiapone mi ha salvato.

Niente a che fare con il mitico sketch di Valter Chiari che vale sempre la pena di rivedere. Piuttosto una delle migliori pizze finora provate in città, da pochi giorni servita in un bel locale di San Salvario, vero e proprio quartiere fenomeno che in tempi di crisi continua a sfornare nuove idee e imprenditori coraggiosi. L’impasto è leggero e ricorda lo stile napoletano, l’offerta valida senza necessità di proporre pizze “lofamostrano“. Peccato per il servizio (troppo troppo) distratto e impacciato, confido nel rodaggio.
Pizzeria Il Sarchiapone

via Berthollet 17/I

Torino

Riflessioni a Sud

Leggendo il bel pezzo di Elisia Menduni sulla Stroncatura, guardando la faccia di Ferran Adrià mangiare la ricotta di bufala di Paestum, ripensando a queste settimane un po’ pugliesi, un po’ lucane e un po’ campane, riguardando le copie pilota della nuova Osterie 2013 e leggendo le riflessioni bonilliane sulle tendenze della nuova cucina un pensiero si accelera in me: ‘o Sud.

Se è vero che la prima guida Michelin Italia si fermava a Siena, provocatoriamente mi verrebbe da dire che oggi si dovrebbe farne una che si ferma a Roma. Sarebbe avanguardia.

Perché in qualche modo dentro all’identità contemporanea della cucina meridionale ci sono parecchie chiavi di volta. La soluzione alla crisi? Modelli talvolta più snelli ed economici. Il nuovo ristorante? Trattorie evolute o luoghi capaci di spogliarsi di fronzoli, non sempre ma spesso. Interpretazione nuova del territorio? Di sicuro, forse anche per la maggiore capacità di reperimento di alcune materie prime e per i condizionamenti di una parte della cucina popolare ancora viva. Strutture di menu originali? Il menu degustazione da 47 portate qui non ha mai attecchito. Apertura al mondo? Di sicuro a quello mediterraneo, perché si trovano punti di contatto internazionale che affacciano sullo stesso mondo. Energia? Tanta, orgoglio di più. E il talento non manca. Sto cercando di mettere ordine fra i miei appunti sulle esperienze più significative, ma è certo che “c’è tanta roba”, come dice sempre un mio amico. Ma non è un’espressione del Sud…

Ammettere i propri errori

In questi giorni di analisi, riflessioni sulla crisi e progetti per cercare di affrontarla, forse emergono più chiare sensazioni e riflessioni. Tra queste c’è sicuramente il saper ripartire dagli errori o comunque trarne spunti di ragionamento. E allora ne dichiaro uno:

La settimana scorsa sono stato a cena, di corsa come mi capita spesso in questo periodo, in un locale astigiano che l’anno scorso abbiamo tolto dalla guida Osterie (edizione 2012) perché la proposta (allora più incentrata su piatti liguri) non ci aveva convinto. Non c’ero stato io, né c’ero mai stato prima, e anche da qui la voglia e la curiosità di andare a vedere. Sorpresa.

Un piccolo locale in centro città, l’Osteria del Diavolo, che fa della semplicità la propria bandiera. Ma che semplicità! Servizio garbato e disponibile (“provate questa Barbera, se non piace la cambiamo” E così in effetti è stato, n.d.r.), qualche tavolo fuori e tre salette dentro e piatti molto convincenti. Le fugasette (frittelle di pasta di pane) con i salumi artigianali, i ravioli (quelli quadrati, astigiani), il galletto e le pesche ripiene, quello che abbiamo mangiato. Cose buone che piano piano, grazie anche alla Barbera, sapevano riconciliare con la settimana stressante. Potere dell’ospitalità, della grande ospitalità, con l’unico rammarico di aver tenuto fuori il locale l’anno scorso. Ma quest’anno rimediamo!

Grande Muraglia

Subisco il fascino della cucina cinese. Dico il fascino perché non sono neanche sicuro di quello che ho mangiato e non pretendo di sapere di averla assaggiata davvero. L’esperienza più intensa fu quella -quasi dieci anni fa- al NY Noodle Town di una traversa di Canal Street. Ci andai con Marco Veneziani su consiglio di Fabio Rizzari e Alfonso Tornusciolo e per poco più di 10dollari mangiai un’anatra con il cipollotto che ancora ricordo. Anche per questo cerco sempre qualche buon indirizzo anche in Italia. Con scarsi risultati…

L’altro giorno però, dopo un giretto in internet, ho trovato segnalato su Torino un “indirizzo frequentato soprattutto da cinesi”: La Grande Muraglia in corso Emilia, a due passi da Porta Palazzo. Seduto, scopro che ci sono due menu: uno per italiani e un per cinesi. Ordino un manzo bollito piccante, quello della brutta foto, che però rende l’idea quanto ad intensità e piccantezza. Forse uno dei piatti più interessanti mai mangiati!

Quadri

Prima di partire per Venezia, avendo in programma una visita al Quadri, sono andato a cercare qualche racconto o recensione su internet ma ho trovato ben poco. Premesso che posso aver cercato in fretta e male, mi son comunque chiesto come mai quando una famiglia di ristoratori di fama mondiale, incluso un cuoco ancora giovane e per questo osservato da mezzo mondo, apre un locale su una delle due o tre piazze più belle del pianeta e realizza un progetto senza precedenti, in pochi corrono a vedere. Poi mi sono risposto: siamo in Italia. Ma soprattutto: gli Alajmo hanno scelto una posizione leggermente defilata rispetto al circo mediatico, nei loro ristoranti è garbatamente chiesto di non usare la macchina fotografica e questo locale è devvero caro. Almeno parzialmente mi sono risposto.

Poi sono entrato al Quadri, stanco dopo due giornate gastricamente intense e di appuntamenti di lavoro vari, e dunque non nella migliore disposizione d’animo. E sono rimasto a bocca aperta.

Perché la sala e le idee sono effettivamente straordinari. Per la capacità di mettere insieme vecchio e nuovo, rispetto del contesto e progettualità inedita. Identità locale (Venezia e laguna, soprattutto), cucina d’autore fuori dagli schemi, taglio sartoriale della griffe, per usare lo slogan di un importante consorzio di formaggio padano. La griffe di un marchio -quello di famiglia- che evidentemente vuole farsi vedere -e che forse qui riesce a farlo anche più di prima- per sottolineare un’idea di qualità. Padovana e veneziana, italiana.

Sedersi ad uno di questi tavolini con vista sulla piazza, ragionare di soaso (rombo della laguna), scartosso, carbonara di Max o qualche altro piatto de Le Calandre è ovviamente entusiasmante. E si vede che il menu è stato pensato con cura (scaricabile tutto da internet): un mix di territorio e dichiarazioni d’amore verso la tradizione regionale veneta e italiana e alternative innovative o garbatamente creative. Un menu che è un percorso vero. L’accoglienza poi è tra le migliori mai avute, con Stefano Munari che si muove con l’agilità e lo stile che raramente si vedono in giro. E i turisti stranieri gongolano.

La sensazione complessiva è di qualcosa che tende verso la perfezione. Uno sforzo immenso ma ripagato dal risultato. Un gioiellino di cui essere orgogliosi, tutti. In cui però per mangiare ci vogliono almeno 200euro più i vini. Ma non facciamo gli ipocriti perché era chiaro che fosse così. In alternativa l’abcQuadri del piano di sotto o ad uno dei tavolini del Caffé sulla piazza ci si può togliere lo sfizio di un piatto (nel primo caso) o di un sandwich (nel secondo) firmati Alajmo. Già perché seduti in piazza San Marco la legge proibisce di mangiare con forchetta e coltello.

Sora Lella

Mi capita sempre più spesso di scavare dentro di me alla ricerca di elementi identitari. E’ la vita da emigrato, forse. Ma più spesso ancora sono le sorprese che mi danno spunti su cui ragionare, quando mi capita ad esempio di emozionarmi inaspettatamente. Mi è capitato qualche giorno fa, a tavola da Aldo Trabalza, sull’isola Tiberina. Aldo, figlio di Elena Fabrizi (meglio conosciuta come Lella) e papà di Simone, è un oste vero: accoglie e racconta, accudisce e organizza.

Sora Lella fa parte di quella categoria di trattorie cresciute negli anni, uguali a loro stesse eppure anche nuove, spesso snobbate a favore di formule più palesemente nuove o originali. O più semplicemente perché sono fuori dal circo della comunicazione. Eppure quel giorno un po’ surreale, con una Roma semideserta per via della neve, l’incontro con Aldo, l’isola, il Ghetto vicino dove ho abitato sei anni, portavano un bel carico di energie romane che si sono palesate anche nel piatto. Perché a volte i piatti sono rivelatori, veicoli emozionali o di ricordi. Soprattutto quando passano prima dalla pancia e poi dalla testa.

Le tagliatelle animelle e carciofi erano buonissime. E i prezzi mi sono pure sembrati più bassi.

Ristorante Sora Lella

via del Ponte Quattro Capi, 16 – Roma

tel. 066861601