Il sistema bistrot, il sistema Consorzio e i “Vini Naturali”

fotoQualche giorno fa ho trovato molto interessanti le parole di Roberto Burdese, di ritorno da un viaggio a Parigi, sul fatto che molti bistrot parigini, in tema di vino, abbiano da imparare dal nostro ristorante Consorzio. Ora, il concetto di fondo è l’offerta di vino (quasi sempre nuova o rinnovata e in sintonia con le produzioni che si rifanno al concetto di “vino naturale”) ma la cosa interessante è che questo fenomeno ha assunto proporzioni significative nel mondo della ristorazione, soprattutto nei bistrot e nelle nuove trattorie. Insomma, se prima il fenomeno era snob e relegato a fasce alte e più costose (ricordo le prime proposte di bianchi in anfora dagli Alajmo a Le Calandre), oggi sta diventando quasi una caratteristica di posti semplici ma di concezione nuova.

Ma cos’ha questo Consorzio di tanto rivoluzionario? Una carta dei vini e una proposta “sulla lavagna” che è fatta soprattutto di conoscenza e passione. Di vini assaggiati e raccontati, rappresentativi di un mondo che, come bene dice Nossiter su Internazionale (del 14/12/2012): “ha diffuso la consapevolezza che il vino è un vettore della memoria storica, un’espressione dell’identità culturale, un fattore di salute e piacere quotidiano e una faro nella battaglia per ridare vita (biologica) alla terra.” Oggi dunque c’è nel proporre vino un po’ più che la semplice idea degustativa ma in qualche modo anche la voglia di utilizzare il bicchiere per qualcos’altro: il vino come mezzo, nel senso migliore del termine. E’ anche quello che dice Dottori. Qualcosa che in altri campi di espressione umana non sempre in questi anni si è visto granché e che invece attraverso la tavola e la convivialità può diventare una sorta di interessante avanguardia: agricola, culturale e perché no, anche economica.

A scuola da Niko

Mi duole talmente di non essere potuto andare alla conferenza stampa di presentazione della nuova scuola di Niko che cerco di rifarmi parlandone qui.

Il progetto è un progetto bellissimo: un centro di formazione della cucina italiana ideato e gestito da Niko Romito con l’apporto scientifico di Slow Food Italia e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Dice lo chef: qui a Castel di Sangro si incontrano identità, studio, creatività, cibo e territorio. Un lavoro fatto di ricerca continua, confronto d’idee, produzioni autentiche e materie prime di qualità.” Mentre l’apporto dell’università si concretizzerà in lezioni teoriche di chimica del gusto, storia delle culture materiali, diritto degli alimenti, botanica. La parte pratica, ça va sans dire, è garantita dallo chef e da un laboratorio di lavoro dotato delle più moderne tecnologie. Oltre alla collaborazione prevista di illustri colleghi, da Alajmo ad Uliassi, solo per usare lettere dell’alfabeto distanti fra loro.

Ho fatto parte del gruppo che ha lavorato all’idea, insieme al coordinatore scientifico per la parte UNISG Nicola Perullo, a Roberto BurdeseRaffaele Cavallo. Penso che si tratti di un progetto interessante e innovativo, e anche per questo Slow Food ha dato il suo contributo. Un progetto che si inserisce in uno scenario che vedrà a breve altre importanti aperture: i 4000 metri quadrati delle scuole del nuovo Eataly Roma e -dall’altro capo della città- il non meno ambizioso “cantiere” di Angelo Troiani con le sue scuole tra Corso Francia e il Fleming. Eppoi io con Niko ho un po’ cominciato: i primi servizi per la tv, i miei primi articoli, le prime guide. Perciò, anche stavolta, gli faccio un grande in bocca al lupo!

Quadri

Prima di partire per Venezia, avendo in programma una visita al Quadri, sono andato a cercare qualche racconto o recensione su internet ma ho trovato ben poco. Premesso che posso aver cercato in fretta e male, mi son comunque chiesto come mai quando una famiglia di ristoratori di fama mondiale, incluso un cuoco ancora giovane e per questo osservato da mezzo mondo, apre un locale su una delle due o tre piazze più belle del pianeta e realizza un progetto senza precedenti, in pochi corrono a vedere. Poi mi sono risposto: siamo in Italia. Ma soprattutto: gli Alajmo hanno scelto una posizione leggermente defilata rispetto al circo mediatico, nei loro ristoranti è garbatamente chiesto di non usare la macchina fotografica e questo locale è devvero caro. Almeno parzialmente mi sono risposto.

Poi sono entrato al Quadri, stanco dopo due giornate gastricamente intense e di appuntamenti di lavoro vari, e dunque non nella migliore disposizione d’animo. E sono rimasto a bocca aperta.

Perché la sala e le idee sono effettivamente straordinari. Per la capacità di mettere insieme vecchio e nuovo, rispetto del contesto e progettualità inedita. Identità locale (Venezia e laguna, soprattutto), cucina d’autore fuori dagli schemi, taglio sartoriale della griffe, per usare lo slogan di un importante consorzio di formaggio padano. La griffe di un marchio -quello di famiglia- che evidentemente vuole farsi vedere -e che forse qui riesce a farlo anche più di prima- per sottolineare un’idea di qualità. Padovana e veneziana, italiana.

Sedersi ad uno di questi tavolini con vista sulla piazza, ragionare di soaso (rombo della laguna), scartosso, carbonara di Max o qualche altro piatto de Le Calandre è ovviamente entusiasmante. E si vede che il menu è stato pensato con cura (scaricabile tutto da internet): un mix di territorio e dichiarazioni d’amore verso la tradizione regionale veneta e italiana e alternative innovative o garbatamente creative. Un menu che è un percorso vero. L’accoglienza poi è tra le migliori mai avute, con Stefano Munari che si muove con l’agilità e lo stile che raramente si vedono in giro. E i turisti stranieri gongolano.

La sensazione complessiva è di qualcosa che tende verso la perfezione. Uno sforzo immenso ma ripagato dal risultato. Un gioiellino di cui essere orgogliosi, tutti. In cui però per mangiare ci vogliono almeno 200euro più i vini. Ma non facciamo gli ipocriti perché era chiaro che fosse così. In alternativa l’abcQuadri del piano di sotto o ad uno dei tavolini del Caffé sulla piazza ci si può togliere lo sfizio di un piatto (nel primo caso) o di un sandwich (nel secondo) firmati Alajmo. Già perché seduti in piazza San Marco la legge proibisce di mangiare con forchetta e coltello.

L’elemento sonoro

Leggo (e apprezzo) un interessante post di Fabio Rizzari in cui tra le altre cose si parla dell’elemento sonoro che può essere presente presente in un vino, come brillantemente descritto da Michel Bettane con la definizione dell’eventuale presenza della “vibrazione di uno strumento musicale”. Quello che molti di noi traducono spesso con il concetto di emozione, mi dico.

Non riesco a non saltare immediatamente con la mente ad alcune vibrazioni percepite negli ultimi mesi e provo a buttar giù in quali occasioni e con quali piatti (lascio il vino a chi ne sa più di me, n.d.r.):

Il merluzzo e siulot di Crippa

La parmigiana come una zuppa thai (che non credo si chiami così) di Massimo Bottura

Il Japo burger di Dos Palillos

I ravioli potagères di Alain Passard

La cote de boeuf de L’Ami Jean

Il dentice al limone di Gigi Nastri

I bonbon all’arrabbiata con crema di asparagi selvatici di Riccardo Di Giacinto

I capellini freddi con crudo di pesce e salsa di frutti di mare di Max Alajmo

Il gelato di fiordilatte di Ugo Alciati

Le patate fritte più buone della mia vita, quelle preparate da Marina Maestro, con la paglierina

Giusto per buttare giù qualche appunto. Poi ci penso ancora.

Una incredibile serata

C’è stato un’evento -esclusivo sì, ma per 800 persone- di cui non si è parlato in giro ma che ha avuto dell’incredibile. Si tratta del “Tre Stelle per la famiglia Alajmo, in quel del Golf Club La Montecchia di Selvazzano Dentro, dedicato ai delegati del settimo Congresso Nazionale di Slow Food Italia, venerdì 14 maggio 2010. Una cena privata, si potrebbe dire e chiuderla qui, ed è vero, ma allo stesso tempo un evento che mi ha dato da pensare.

Organizzazione perfetta- girava tutto come un orologio di precisione- in mano a Maura Biancotto e alla famiglia Alajmo al completo e un percorso goloso fatto di grandi prodotti e grandissimi piatti in differenti “stazioni” disseminate fra le tante sale dell’edificio. C’era Franco Cazzamali e la sua carne, c’era Mauro Lorenzon con le sue ostriche, c’erano tanti del mondo Slow del basso veneto con pesce fritto, fasolari e chi più ne ha più ne metta. Melanzane alla parmigiana da sturbo, il BBQ de i Signori, c’erano stanze intere di formaggi e salumi, il cappuccino e il risotto de Le Calandre. Per finire con incredibile gelato alla nocciola.

Tutto perfetto, mangiato in piedi, poca poesia e tanta sostanza (ma atmosfera e festa incredibili), gusto ai massimi livelli, e -soprattutto- per ottocento persone. Felici. Come felici erano anche gli Alajmo e credo che la cosa abbia reso anche in termini economici. Insomma le tante riflessioni sul futuro delle modalità della nuova alta cucina possono anche partire da qui.

Certo, quando si punta sul no frills tutto deve essere perfetto. Ma in questo caso l’accoppiata Alajmo-Biancotto era una garanzia.

Lo sapete che vi dico..?

Dopo uno sguardo al congresso di Madrid, una beccaccia sui Pirenei, una gita in Francia, dopo aver ascoltato tanti colleghi stranieri, una lunga chiacchierata con un amico inglese e i racconti di tanti chef…lo sapete che vi dico? Che non siamo mica messi troppo male.

E’ un po’ la storia del punto di vista, del bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieno, ma il comparto enogastronomico italiano osservato in un contesto europeo ne esce piuttosto bene. Tra un Adrià che chiuderà per riflettere, un Ducasse che gira il mondo pagato dal suo governo per promuovere la cucina francese come l’unica possibile (in attesa che il cadavere spagnolo passi loro davanti, o almeno così dicono i maligni) e soprattutto che racconta storie sui prodotti da salvare e sul tonno rosso che sentite oggi qui in Piemonte fanno un po’ sorridere…

I congressi e dibattiti mondiali hanno virato su temi a noi molto vicini, il prodotto e una certa filosofia della cucina italiana sono spesso al centro di interventi e cuochi di ogni dove anche quando non siamo presenti. E se è vero che la crisi c’è, è altrettanto vero che i nostri ristoranti stanno tenendo, soprattutto dove c’è qualità autentica e poca fuffa.

Probabilmente l’unico punto su cui si può (e si deve) qui da noi ragionare ancora un po’ è la formula: non esiste solo un modo di servire e proporre buona cucina e grandi prodotti. E i prossimi anni ci riserveranno sorprese in questo senso. Intanto aspettiamo l’apertura del nuovo ristorante degli Alajmo con grande curiosità. Mancano pochi giorni. Chissà che non ci riservi davvero qualche sorpresa interessante.