
La parola territorio è come il prezzemolo: un po’ ovunque. Usata troppo, a sproposito, sfruttata nel suo potere evocativo. Eppure il territorio è e resta un tema centrale della cucina nostrana, “alta o bassa” che sia. Ovvero, per usare categorie più comprensibili, che si tratti di cucina riferibile a ricette e tradizioni in maniera diretta e schietta o di cucina d’autore, con i tratti più marcati di chi la fa e vuole lasciare il proprio segno. Un tema che risolve (almeno in parte) l’eterno dibattito fra tradizione e innovazione.
Ora, esiste in maniera sempre più evidente un filone di cucina d’autore, di ristoranti che stanno emergendo grazie alle capacità di ristoratori giovani e intraprendenti, dotati di una sensibilità maggiore verso il proprio intorno. Maggiore di chi li ha preceduti. E questo filone ha una sua buona rappresentanza nella capitale. Una strada chiaramente aperta da Antonello Colonna molti anni fa e poi probabilmente rinvigorita (in modo diverso) dall’incisiva idea di “creatività romana” del bravo Riccardo Di Giacinto. Così come dall’importante contributo di Adriano Baldassarre nel Tordo Matto che fu, a Zagarolo (e che non a caso oggi torna a lavorare con Colonna a Vallefredda). Altri poi potrebbero essere i nomi ma mi fermo qui.
In parallelo lavorava ad Albano Laziale ma adesso a Roma, Alessandro Pipero. Capace di scegliere eccellenti compagni di viaggio (Alessandro è uomo di sala, non fa il cuoco) che stanno lasciando il segno, scrivendo pagine nuove e interessanti per la nuova cucina romana. L’ultimo in ordine di apparizione è Luciano Monosilio.
Il suo modo di concepire la tavola è sicuramente romano nello stile ma condito di buone cose dal mondo, soprattutto sul fronte della ricerca dei prodotti (il lardo di patanegra e mosto cotto così come il prosciutto di Cormons D’Osvaldo ne sono un esempio) ma c’è un filo rosso di fondo che tiene insieme il tutto che ha sapore di Roma e dintorni, una sorta di cifra stilistica. Persino nel petto di pollo maionese ed ostrica, forse uno dei piatti più buoni. Lascia il segno anche il tortellino agnello menta e panna di pecorino, gioco evocativo del piatto più banale. Fuori da tutto questo ragionamento invece un classicissimo rognone con salsa francese, mai così buono in città.
La cosa più sensata che mi viene da dire, però, è che Pipero è particolarmente dotato nel far percepire la ricerca di un piacere a tavola che deve essere anche suo. Nel senso che la sua tavola è proprio quella in cui vorrebbe mangiare lui. Fatta di quei sapori, di quelle attenzioni e di quei dettagli che pochi ristoratori sanno cogliere. Forse perché non si mettono abbastanza nei panni del cliente.