Mi avevano parlato in tanti di Dao, nuovo ristorante cinese di Roma, in viale Jonio. Da tempo la curiosità dei romani verso un locale cinese di livello aveva attivato i sensori, alla ricerca di qualcosa che potesse superare i (pochi) nomi affermati: Hang Zhou, Celebrità, Court Delicati e il costoso Green T.
Il posto è molto gradevole, moderno, accogliente. Il servizio attento e preparato, peraltro generoso di spiegazioni. E, cosa più importante, qui non si fa uso di glutammato né di surgelati. C’è addirittura la cucina (quasi) a vista. Eppure qualcosa fa pensare ad una cucina progettata ad uso e consumo di italiani non poi così interessati alla cucina originaria, che hanno piuttosto bisogno di essere rassicurati: “di primo abbiamo delle paste fatte in casa, di riso, come gli spaghetti, le trofie e i cannelloni…cinesi”. E in effetti i gusti sembrano pettinati, addomesticati, lontani dall’intensità di quelli provati a NY o Londra.
Peccato!
In questi giorni si è parlato più volte, qui e altrove, di “menu di persecuzione” o di “tirannia del menu”.Sono rimasto particolarmente colpito invece dall’idea di un ristorante nuovo, che ribalta completamente questa prospettiva: Rosti.
La struttura: tavoli sociali e grandi spazi, con la brace, il forno e lo spiedo a far da sfondo, ne costituiscono l’architettura. Ma la cosa che mi è piaciuta di più è quanto e come questo luogo sia stato pensato per chi lo frequenta e non per chi lo ha creato. La socialità è un elemento primario: si mangia accanto agli altri, la chiacchiera viene spontanea e le famiglie sono particolarmente ben accette. Fuori, un grande spazio-giardino con giochi per bambini consente di entrare ed uscire e far divertire anche loro. Nessuna formalità nell’apparecchiatura e nella proposta: regole saltate e piatti in ordine sparso (non esiste neanche la divisione in portate: primo, secondo…). Orari elastici per arrivare e mangiare più o meno quando si può, fino a tardi. In tutto questo però grande attenzione da parte del personale che ti segue, si preoccupa, ma non rompe mai le scatole. E soprattutto non pretende nulla da te, meno che mai che tu capisca il locale. Piuttosto te lo spiega.
E’ possibile trovare una propria dimensione, da Rosti. Non si partecipa ad una liturgia ma si vive a tavola un pezzo di vita privata. Di questi tempi (gastronomicamente parlando) mi è sembrato rivoluzionario…
Riporto qui le poche righe scritte su Repubblica sabato scorso, perché Flavio De Maio è uno da seguire:
“I tempi cambiano e quello che era un ristorante messicano modaiolo si trasforma in una trattoria verace, tutta tradizione. Se questo avviene in una metropoli la cosa è ancora più singolare, perché fare cucina di territorio in un contesto urbano non è semplice. Se poi avviene a Roma, nel Rione Prati, dove da sempre il pubblico cerca “qualcosa di diverso” e un po’ di tendenza, allora è una vera e propria sfida. L’ ha raccolta Flavio De Maio, che ha deciso di raddoppiare il suo Velavevodetto di Testaccio con qualche tavolo sulla luminosa piazza dei Quiriti (al civico 5, tel. 0636000009), tra Cola di Rienzo e Piazza Mazzini. Pochi fronzoli (il locale non è stato riarredato) e tanta sostanza: materie prime scelte con cura, in alcuni casi autoprodotte nell’ azienda agricola di Cerveteri e piatti semplici: cucina romana schietta, fra polpette di bollito e cacio e pepe. E forse, proprio perché così semplicemente autentica, alla fine risulta quasi straordinaria. Lo stile della casa è tanto romano, qualche volta un po’ brusco ma saporito come il resto. E il conto è per tutte le tasche.”
Domani è il grande giorno. Le foto di Elisia Menduni danno già il senso del perché: nasce la scuola di Angelo Troiani. Una persona che ho incrociato più volte nella mia vita -a volte anche casualmente (destino?)- con cui ho lavorato, con cui ho discusso, che stimo. La prima volta ero ragazzino, una ventina di anni fa quando andai a mangiare nel suo Convivio a Roma, allora in via dell’Orso, per la Settimana del Gusto. L’ultima quando ho visitato, una settimana fa la scuola Coquis quasi finita.
Forse anche per questo sono un po’ emozionato anch’io: perché vedo persone ed esperienze che si ritrovano, perché credo in questo progetto didattico, perché Roma ha tanto bisogno di una nuova scuola, perché ho abitato per anni lì a due passi, non lontano da Corso Francia. La sensazione netta che ho avuto guardando le aule, mentre Angelo spiegava, è quella di un luogo pieno di opportunità, di una sorta di laboratorio. Di sano entusiasmo. Che di questi tempi fa l’effetto di un’iniezione di fiducia, preziosa.
Se ne torna a parlare di più in occasione degli eventi importanti ma non c’è dubbio che il mondo della birra artigianale sia sempre molto attivo. L’evento, adesso, è l’attesa uscita della guida Birre d’Italia 2013 di Slow Food Editore.
Un lavoro che definirei monumentale per il numero di birre assaggiate e di birrifici visitati dalla truppa guidata da Luca Giaccone ed Eugenio Signoroni. Un lavoro che abbandona -anche qui- stellette e punteggi per uniformarsi alla nuova impostazione in chiavi di lettura sulla strada aperta da Slow Wine. La cosa non è stata capita da tutti, qualche produttore (come da copione) si è arrabbiato per le scelte fatte dai curatori ma tant’è, il fatto di non mettere tutti d’accordo può anche essere un segnale del fatto che stiamo lavorando bene. Per i lettori, ça va sans dire. Per loro abbiamo anche studiato una nuova impostazione grafica e la nuova copertina.
Un lavoro che comunque rimane sostanzialmente unico in Italia proprio perché focalizzato sul panorama artigianale locale, che è uno di quelli che stanno crescendo di più e che sono maggiormente osservati a livello mondo.
La prima occasione di festeggiamenti e presentazioni sarà all’interno di Vinòforum, a Roma, il 10 giugno. La guida arriva in libreria in queste ore, nel frattempo si può acquistare qui. In queste ore al Salone del Libro ne stiamo vendendo un bel po’. Se il buongiorno si vede dal mattino…
La parola territorio è come il prezzemolo: un po’ ovunque. Usata troppo, a sproposito, sfruttata nel suo potere evocativo. Eppure il territorio è e resta un tema centrale della cucina nostrana, “alta o bassa” che sia. Ovvero, per usare categorie più comprensibili, che si tratti di cucina riferibile a ricette e tradizioni in maniera diretta e schietta o di cucina d’autore, con i tratti più marcati di chi la fa e vuole lasciare il proprio segno. Un tema che risolve (almeno in parte) l’eterno dibattito fra tradizione e innovazione.
Ora, esiste in maniera sempre più evidente un filone di cucina d’autore, di ristoranti che stanno emergendo grazie alle capacità di ristoratori giovani e intraprendenti, dotati di una sensibilità maggiore verso il proprio intorno. Maggiore di chi li ha preceduti. E questo filone ha una sua buona rappresentanza nella capitale. Una strada chiaramente aperta da Antonello Colonna molti anni fa e poi probabilmente rinvigorita (in modo diverso) dall’incisiva idea di “creatività romana” del bravo Riccardo Di Giacinto. Così come dall’importante contributo di Adriano Baldassarre nel Tordo Matto che fu, a Zagarolo (e che non a caso oggi torna a lavorare con Colonna a Vallefredda). Altri poi potrebbero essere i nomi ma mi fermo qui.
In parallelo lavorava ad Albano Laziale ma adesso a Roma, Alessandro Pipero. Capace di scegliere eccellenti compagni di viaggio (Alessandro è uomo di sala, non fa il cuoco) che stanno lasciando il segno, scrivendo pagine nuove e interessanti per la nuova cucina romana. L’ultimo in ordine di apparizione è Luciano Monosilio.
Il suo modo di concepire la tavola è sicuramente romano nello stile ma condito di buone cose dal mondo, soprattutto sul fronte della ricerca dei prodotti (il lardo di patanegra e mosto cotto così come il prosciutto di Cormons D’Osvaldo ne sono un esempio) ma c’è un filo rosso di fondo che tiene insieme il tutto che ha sapore di Roma e dintorni, una sorta di cifra stilistica. Persino nel petto di pollo maionese ed ostrica, forse uno dei piatti più buoni. Lascia il segno anche il tortellino agnello menta e panna di pecorino, gioco evocativo del piatto più banale. Fuori da tutto questo ragionamento invece un classicissimo rognone con salsa francese, mai così buono in città.
La cosa più sensata che mi viene da dire, però, è che Pipero è particolarmente dotato nel far percepire la ricerca di un piacere a tavola che deve essere anche suo. Nel senso che la sua tavola è proprio quella in cui vorrebbe mangiare lui. Fatta di quei sapori, di quelle attenzioni e di quei dettagli che pochi ristoratori sanno cogliere. Forse perché non si mettono abbastanza nei panni del cliente.
Qualcuno penserà che sono un ingenuo per credere ancora nell’immutabile identità di indirizzi storici. Altri invece che sbaglio, perché la Trattoria Cadorna è un punto di riferimento del sallustiano, e di Roma.
Io comunque ieri ho avuto un’esperienza diciamo non memorabile, di quelle che ti intristiscono un po’, pensando ai fasti passati di questa bella trattoria romana. In carta le pappardelle alla trippa incuriosiscono (anche se qualche dubbio veniva già solo sull’idea) ma sono poi grossolane, con tranci di trippa troppo grandi e difficili da gestire con la forchetta, praticamente impossibili con la pasta. Sugo molto salato e un po’ acido. La coda alla vaccinara dalla cottura forse troppo breve aveva invece una consistenza lontana dalla morbidezza attesa.
Consolarsi con una semplice bruschetta? Con zucchini, peperoni, pomodori e melanzane. Dal sapore primaverile…
Mi duole talmente di non essere potuto andare alla conferenza stampa di presentazione della nuova scuola di Niko che cerco di rifarmi parlandone qui.
Il progetto è un progetto bellissimo: un centro di formazione della cucina italiana ideato e gestito da Niko Romito con l’apporto scientifico di Slow Food Italia e dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Dice lo chef: “qui a Castel di Sangro si incontrano identità, studio, creatività, cibo e territorio. Un lavoro fatto di ricerca continua, confronto d’idee, produzioni autentiche e materie prime di qualità.” Mentre l’apporto dell’università si concretizzerà in lezioni teoriche di chimica del gusto, storia delle culture materiali, diritto degli alimenti, botanica. La parte pratica, ça va sans dire, è garantita dallo chef e da un laboratorio di lavoro dotato delle più moderne tecnologie. Oltre alla collaborazione prevista di illustri colleghi, da Alajmo ad Uliassi, solo per usare lettere dell’alfabeto distanti fra loro.
Ho fatto parte del gruppo che ha lavorato all’idea, insieme al coordinatore scientifico per la parte UNISG Nicola Perullo, a Roberto Burdese e Raffaele Cavallo. Penso che si tratti di un progetto interessante e innovativo, e anche per questo Slow Food ha dato il suo contributo. Un progetto che si inserisce in uno scenario che vedrà a breve altre importanti aperture: i 4000 metri quadrati delle scuole del nuovo Eataly Roma e -dall’altro capo della città- il non meno ambizioso “cantiere” di Angelo Troiani con le sue scuole tra Corso Francia e il Fleming. Eppoi io con Niko ho un po’ cominciato: i primi servizi per la tv, i miei primi articoli, le prime guide. Perciò, anche stavolta, gli faccio un grande in bocca al lupo!