La pajata di Scabin

Una delle cose più difficili da trovare è la voglia della cosiddetta “cucina d’autore” (a me questa definizione però non piace per nulla) di cimentarsi con i piatti della tradizione. Che non significa ridisegnarli, scomporli, destrutturarli o alleggerirli. Significa provare a interpretarli rimanendo nello spartito. Musicalmente direi più un leggero arrangiamento che delle variazioni sul tema.

Scabin da tempo ha una sua piola. No, non ha aperto nessuna trattoria, semplicemente si diverte a fare la sua trattoria per gli amici, nel retrobottega. Io arrivo ultimo ma devo dire che ogni volta è una cosa nuova e diversa. Per l’occasione ho avuto modo di provare delle incredibili alici al verde (crude e con una salsa inedita, molto leggera), una esqueixada catalana, il fegato alla veneziana (al contrario) e degli incredibili rigatoni con la pajata (foto Bob Noto). Che chiamo io così ma in realtà erano cannelloni rotti con un sugo di pajatina di agnello, poi arrostita e messa sopra. Buonissimi!

 

 

Perbellini e i Quattro Cuochi

Nel mare di stress lavorativo degli ultimi giorni sono riuscito a trovare una finestra di svago durante un viaggio in Veneto. Si tratta della nuova avventura di Perbellini, di cui ho avuto modo di scrivere sabato su Repubblica:

“Giancarlo Perbellini è riuscito nel difficile compito di riconciliare grandi cuochi e trattorie, troppo spesso rappresentati da un’ inutile sfida fra piatti di tagliatelle e piatti creativi. Lui è riuscito a fare una trattoria, anzi la Locanda dei Quattro Cuochi (tel. 0458030311), nel cuore di Verona, a due passi da piazza Bra, in cui l’ esperienza si sposa bene con il territorio. Si spende il giusto (sui 35 euro ma volendo c’ è il menu del giorno a 20) e si mangiano piatti che sanno di Veneto come il guanciale di manzo brasato o la crema di fagioli con insalata di nervetti. Più in generale però questa cucina raccoglie il meglio dall’ Italia delle regioni e dei relativi sapori con la battuta di Fassona, la mozzarella in carrozza, le penne all’ amatriciana bianca o il pollo e patate. Quest’ ultimo non è altro che una coscia disossata e cotta lentamente e poi resa croccante con la tecnica e l’ abilità date dall’ esperienza. Che si vede già all’ ingresso con i giovani al lavoro nella cucina a vista che danno la sensazione di una grande brigata a lavoro in trattoria. Sono loro che vi serviranno pure a tavola.”

I ristoranti più esclusivi del momento

Provocazione: i ristoranti più esclusivi del momento sono il Consorzio di Torino e Da Cesare a via del Casaletto, Roma. Qui vengono nomi noti (Nossiter, su tutti), qui vengono persone che hanno sempre snobbato i ristoranti -soprattutto quelli di qualità- (noti medievisti e letterati, su tutti) ma soprattutto, qui, è sempre più difficile trovare posto. Quest’affermazione, nel caso del Consorzio, va trasformata in qui non si trova mai posto, se non si prenota con qualche giorno di anticipo. Settimane se si tratta di weekend. Ma i due titolari si scusano sempre con garbo, al telefono, cercando di trovare date alternative.

Insomma i ristoranti più ricercati sono due trattorie moderne in cui si spendono una trentina di euro. Trattorie, anche se casualmente entrambi -senza vezzi- si definiscono “ristorante” (evitando nomi più pittoreschi o evocativi), perché la loro è cucina di territorio nel solco della tradizione e la formula è quella della trattoria. Moderne perché è indubbio che in entrambi i casi la concezione, l’identità, le idee, guardano avanti e non solo indietro. Pescano dal proprio territorio ma si confrontano col mondo ed evolvono con intelligenza esattamente come capita per i neobistrot parigini. Hanno capito che non esiste contrapposizione fra tradizione e innovazione, frequentano i loro colleghi stellati (nel caso di Leonardo del Casaletto addirittura la frequentazione è stata per anni professionale) dai quali traggono eccessi e riflessioni, come per il titolo della carta dei vini torinese.

E oggi andare al Consorzio o Da Cesare fa più figo che da Gualtiero Marchesi. Che piaccia o no.

L’altro mondo

Dopo due anni di lavoro, di cui uno particolarmente dedicato alla guida Osterie d’Italia posso dirlo: esiste un altro mondo. Osservazione ovvia, certo. Ma quello che mi ha colpito -è arrivato il momento dell’outing- è che questo mondo lo conoscevo troppo poco. Il mondo della cucina tradizionale, della trattoria, dell’osteria, del nostro passato, quello che pensiamo di conoscere. Tutti, come quando ci sentiamo allenatori della nazionale dopo la partita. Il mondo di una ristorazione fatta di sistemi e valori diversi, di microeconomie, di rapporto con il territorio, di ripensamento in chiave nuova di quella che è l’identità italiana. Un mondo che –mi permetto di dire– conoscono bene davvero in pochi.

Ho passato due anni ad ascoltare, a leggere, ad osservare e assaggiare. Per scoprire quello che in gran parte pensavo non esistesse più. O fosse diverso. E invece c’è, in lungo e in largo, ed è fatto di scelte fuori dagli schemi, di rapporto stretto con le cose concrete (e non solo di ispirazioni o ricordi rivisitati), di parametri economici che hanno dell’incredibile. Fatti anche di piatti a 3 o 4euro (magari verdure, ma indimenticabili) o di interi menu a 25. E spesso sono anche sistemi che stanno perfettamente in piedi. La cucina delle trattorie c’è anche se spesso non è raccontata dai media. Meno che mai da quelli nuovi. Che più facilmente si innamorano di stelle e luci seguendo la scuola dei mezzi di comunicazione più vecchi e che non riescono a dialogare con un mondo poco informatizzato. Molto poco. Questo della tradizione è un mondo evocato spessissimo ma quasi mai analizzato davvero e raccontato.

Eppure ne vale la pena. Perché c’è molto da imparare, per un paese come il nostro. L’osteria, la trattoria -le definizioni possono essere tante- sta riaccendendo passioni e voglia di fare. In alcuni casi sta riportando giovani al lavoro e nei luoghi di origine esattamente come è capitato per il vino da un paio di decenni a questa parte. E sta cambiando pelle. Oggi il concetto di tradizione contrapposto a quello di innovazione o modernità è assolutamente superato. Il recupero del passato si intreccia con il sacrosanto desiderio di crescere ed evolvere e spesso in questi modelli di ristorazione il territorio diventa più importante della tradizione pura. E i prodotti o i modi di cucinare diventano linguaggi e mezzi più comprensibili per raccontare storie nuove. Non a caso proprio il territorio è diventato anche parametro e ispirazione per i grandi cuochi.

Vale insomma la pena di raccontarlo questo mondo. Che è tanto diverso da quello, qualche volta troppo chiuso e autoreferenziale, della cosiddetta ristorazione alta (siamo pur sempre il paese delle sciocche contrapposizioni di campanile). Quest’anno proviamo a farlo con più attenzione con la guida Osterie 2012 che sta prendendo corpo. Che è sempre la stessa ma che è anche nuova. Che cerca di raccontare l’identità italiana della cucina com’era ma anche come sta diventando. Sempre rispettando parametri che restano fondamentali. Come quello per cui il conto finale non deve essere troppo salato. Ma introducendo punti di vista nuovi e storie giovani. Che cominciano a farsi sentire.

E poi magari mettiamo grandi chef e osti ad uno stesso tavolo per provare il dialogo. Ma questa è un’altra storia, prima finiamo il lavoro.

 

Una settimana da studenti

Nel mare delle cose da fare in quest’agosto guidaiolo (come peraltro tutti i miei agosto da alcuni anni a questa parte) mi sono concesso una pausa. Una meravigliosa pausa, accompagnando un piccolo gruppo di studenti dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo in un viaggio didattico a Roma. E ancora una volta ho pensato quanto sia illuminante e proficuo per me confrontarmi con chi ha vent’anni di meno. Banale quanto vero.

Il viaggio, a carattere territoriale, consisteva nel conoscere aspetti gastronomici, sociali e culturali della città sotto diversi punti di vista. Tante cose, anche se molte sono state lasciate fuori, a volte troppe per giovanissimi curiosi e affamati -in tutti sensi- ma anche digiuni di concetti base (che a torto ritenevo scontati). Perciò abbiamo dovuto districarci tra mercati e artigiani, street food, alta cucina, piatti semplici e tradizionali e altri più innovativi, cercando di crearci da soli un filo rosso. Un lavoro estenuante…. ;-)

La collaborazione di tanti amici è stata enorme. E vedo che -al di là del “blasone” dell’università- c’è una grande curiosità anche da parte di molti operatori nei confronti di giovani che adottano categorie nuove e punti di vista originali (e che applicheranno in futuro). E per i quali molte delle nostre chiavi di lettura sono superate. Quella della contrapposizione tra tradizione e innovazione (l’ho già detto) su tutte.

Abbiamo visitato i mercati Trionfale, Campo de’ Fiori (sempre più turistico e poco significativo, a tratti ridicolo) e il bel mercatino Circo Massimo (in via San Teodoro) organizzato da Coldiretti. Abbiamo conosciuto Gabriele Bonci (che ha semplicemente lasciato tutti di stucco) e Mirella Fiumanò. Pizza e gelato. Devo ringraziare per l’enorme collaborazione Antonello Colonna, che non solo ci ha accolto come i suoi ospiti migliori, ma ci ha raccontato i suoi progetti e il suo futuro dedicandoci quasi due giornate intere. E il cantiere del suo resort di Vallefredda (Labico) ci ha sbalordito. Vedere per credere. Un grazie anche a Federico De Cesare e a Leonardo Di Vincenzo che hanno cercato di fare il massimo per spiegare Roma ai giovani e che come sempre se la sono cavata egregiamente. A Fabio Rizzari e Marco Reitano che ci hanno spiegato il vino (anche se quel giorno un diluvio aveva allagato casa). A Leonardo del ristorante Da Cesare di via del Casaletto, che secondo me è diventata la migliore trattoria della città e a Flavio del Velavevodetto perché come racconta lui Roma non la racconta nessuno. Ad Heinz Beck che ci ha preparato un cacio e pepe con i gamberi al lime (nella foto) in cucina, regalando una inaspettata sorpresa che appaga la felicità di chi non ha mai visto un sistema come quello de La Pergola, che più vedo e conosco e più mi piace. A Gigi Nastri perché la sua cena è stata la più buona secondo gli studenti e ad Arcangelo che sul divano e con un supplì in mano ci ha raccontato il suo libro e il suo lavoro. Da ultimo Franca e gli amici dell’Albergo Sole che hanno ospitato in una casa più che in hotel.

La cucina non sarà più la stessa

Della chiusura del Bulli si è scritto e si sta scrivendo, in questi giorni. Lo hanno fatto decine di giornalisti in tutto il mondo e qui da noi.

Il 31 luglio il ristorante El Bulli cesserà di esistere, perlomeno così come lo abbiamo conosciuto. E in assoluto come ristorante. Non c’è da disperarsi, però: la trasformazione in fondazione privata tanto voluta da Adrià produrrà nuova vita e un bel laboratorio di pensiero e di novità.

Resta un fatto. Non è vero che dal 31 luglio la cucina spagnola non sarà più la stessa. Troppo poco: dall’agosto del 2011 esisterà un prima e un dopo per l’intera cucina occidentale (tanto per volare basso). Lo stimolo dato dal genio catalano non sarà più quello di un ristoratore capace di influenzare le tendenze della nuova cucina a livello mondo ma sarà un’altra cosa.

La capacità di Adrià di incidere sui cambiamenti degli ultimi anni è stata enorme. E non è un fatto spagnolo. Piuttosto si è definito con il termini “spagnolo” e “cucina spagnola” fenomeni di avanguardia culinaria che erano propri di un leader e di un movimento. Che ha toccato soprattutto il mondo dell’alta cucina -è vero- ma che a livello economico e culturale ha saputo andare molto oltre. Fino a entrare nella comunicazione turistica a fianco di grande opere artistiche o a smuovere il più seguito programma televisivo, persino nel nostro paese. E comunque quando si parte dall’alta cucina si arriva poi ad influenzare l’intero modo di mangiare. Non è tutto così chiaro adesso ma lo sarà. Non è un caso se oggi anche in trattoria le salse sono alleggerite, l’occhio vuole la sua parte e le porzioni arrivano al piatto e non su grandi vassoi da sporzionare. Proprio come teorizzavano negli anni ’70 quelli della nouvelle cuisine. Tranquilli, non mangeremo spume, ma -ad esempio- è anche grazie a Ferran se oggi molti cuochi danno la stessa dignità ad una patata e ad un tartufo. Anche perché il cambiamento nato in Catalogna è figlio di un contesto sociale ed economico. Come ben osserva il mio amico Philippe Regol. Mi era capitato di scrivere sullo stesso concetto anni fa.

Quindi con la chiusura del Bulli ristorante si chiuderà un’epoca. E se ne aprirà un’altra. Quale sarà ancora è da capire. Post-avanguardia? Di certo buona parte di questo movimento rimarrà come stile, come modo di pensare, come sistema creativo. Molto altro invece sparirà, come a volte scoppiano le bolle di sapone. E si farà anche un po’ di pulizia. Nelle idee e nelle forme.

Io sono curioso e fiducioso. Convinto che il cambiamento che ci ha portato da una cucina borghese statica ad un interesse diffuso per la buona cucina sia una strada dalla quale non si torna indietro. Facendo tesoro del superamento di inutili contrapposizioni come quella fra tradizione ed innovazione, che oggi ha sempre meno significato. E convinto che bene come oggi, al ristorante, non si sia mai mangiato.

3 chiavi e una bella mano

Inevitabilmente, visto che stiamo mettendo in cantiere tante belle novità per la guida Osterie d’Italia di Slow Food, me ne vado in giro (più di prima) per tavole di territorio e a buon mercato. E potrebbe sembrare scontato parlar bene di una di queste, a molti nota, anche perché il titolare, Sergio, è anche attivo associativamente nel mondo Slow.

Non è di lui infatti che voglio parlare qui ;-) ma di Annarita e del suo gruppo di cucina. Già perché io alla Locanda delle Tre Chiavi di Isera ho trovato proprio una bella mano. E non è così comune o così scontato che in una cucina semplice portatrice di valori di territorio e di tradizione prevalga anche lo stile di chi cucina. In questo caso è stato così e il salmerino e il ragù di lucanica fresca Trentina (in menu è scritta così) li ricordo ben chiari e spero di mangiarli di nuovo e presto. Per il resto la Locanda è un luogo di grande accoglienza, in cui tutto gira bene e le linee guida sono chiare. Non c’è retorica, non c’è folclore, piuttosto l’interpretazione -quando serve anche con un po’ di modernità- del territorio. A partire dalla scelta delle materie prime e dei fornitori locali. Che non è solo questione di griffe e denominazioni.

E questo è un tema di cui si può e si deve ragionare di più soprattutto nella ristorazione più a buon mercato. Abbiamo cominciato.

The best chef in Rome?

Se un blog è anche un diario che segue un po’ la vita di chi lo scrive questo blog si sta trasformando nel diario di un romano trasferito a Torino. Nè più nè meno quello che sono. E comincio a guardare con occhi diversi la mia città: maggiore autocritica, fascino, un pizzico di nostalgia.

Sono dunque tornato da quello che per me è stato uno dei nomi nuovi (davvero nuovi) della ristorazione intelligente: Riccardo Di Giacinto. Il suo All’Oro, sorta di bistrot di alta cucina in quel dei Parioli (terra straniera, n.d.r.) è ormai da qualche anno uno dei migliori locali della città. Per certi aspetti -però- oggi la sua cucina è forse la più interessante. E non tanto (o solo) perché sia la migliore, la più tecnicamente evoluta o incredibilmente geniale ma perché ha delle caratteristiche nettissime, chiare, romane, inconfondibili. Questa cifra stilistica è frutto, come mi è già capitato di scrivere, del carattere del cuoco, che non cerca di alleggerire, rivisitare, rassicurare ma piuttosto drammatizza. E così escono fuori piatti sicuramente moderni, anzi modernissimi, che però riprendono concetti fondamentali del modo tradizionale di cucinare della capitale e della sua regione. Gusti forti, dunque, utilizzo di pomodoro a go go, accostamento di dolce/salato e acido/amaro.

In quest’ultima occasione ho provato un fantastico Lamb burger (un piccolo hamburger di agnello la cui dolcezza ricordava alcune carni crude di vissaniana memoria…), dei bon-bon all’arrabbiata su crema di asparagi selvatici (un contrasto acido/amaro/piccante semplicemente riuscitissimo), una quaglia con petto farcito e coscia laccata miele e ‘nduja, anche se in tanti mi hanno parlato del bollito (che non ho ancora assaggiato) come di una delle sue creature migliori. Tutto davvero eccellente ma quello che mi preme sottolineare è l’originalità di un’impronta che può costituire un punto di partenza nella riflessione su un nuovo modello di alta cucina italiana. Una sorta di nuova concezione del territorio, senza scimmiottamenti. Perché io -in tanti assaggi- una cucina così coraggiosa e poco ruffiana nel riproporre sapori tradizionali non l’avevo ancora provata, in Italia.

p.s.: dopo tanti elogi mi permetto una tiratina di orecchie: a Ricca’ togli i 3euro a persona per il pane, che in un ristorante come il tuo stonano…

Ristorante All’Oro

via Eleonora Duse 1E

00197 Roma

tel. 06 97996907

prezzo medio: 70euro (vini esclusi)