Lo storico compromesso di Cipriani all’Harry’s Bar

03vebarDevo dire che se avessi dovuto identificare un simbolo per capire quando si fosse davvero giunti alla crisi dei modelli di ristorazione “borghese” avrei scelto proprio l’Harry’s Bar. Forse più ancora dell’Enoteca Pinchiorri, dove ad un piatto, o meglio a un bicchiere costoso, corrispondono un lavoro, una qualità, una ricerca difficilmente riscontrabili altrove. All’Harry’s Bar di Venezia no: lì un Martini costa quello che costa -e peggio ancora un piatto di baccalà matecato o di risi e bisi– solo perché sei lì. E Arrigo Cipriani, padre di un pezzo di storia recente della cucina italiana, lo ha sempre rivendicato.

L’aria è un po’ cambiata, a quanto pare. E questo interessante articolo di Giampaolo Bonzio è qui a testimoniarlo.

Insomma anche in Calle Vallaresso adesso c’è la formula a prezzo di trattoria, 32euro. Che una volta non bastavano per un piatto, forse ce la facevi per l’aperitivo.

Peccato per le dichiarazioni di Cipriani:

«A differenza degli chef francesi che quasi quasi impongono un percorso a tavola molto lungo dall’antipasto al caffè – spiega Arrigo Cipriani – noi diciamo chiaramente ai nostri clienti che possono concentrarsi anche solo su un primo e su un secondo. In questo modo stiamo cercando di accontentare più che possiamo i turisti che arrivano dalle nostre parti. Possono scegliere un primo tra cinque proposte e lo stesso vale per i secondi».

Un po’ di sincerità non avrebbe guastato. Almeno stavolta. Ma tant’è.

Il mondo cambia, e in fretta.

Elogio del dubbio (il cibo è una certezza)

Qualche giorno fa, in un nuovo luogo di riflessioni alterate, ho scritto questa cosa:

“Arrivo tardi a raccontare di una mostra tra le più inquietanti che mi sia capitato di vedere. Tardi perché fa quasi un anno che a Venezia, nella rinnovata Punta della Dogana di struggente bellezza, è esposta ”Elogio del dubbio”, una raccolta a cura di Caroline Bourgeois focalizzata su opere che indagano la sfera del turbamento, la messa in discussione delle certezze in tema di identità. L’inquietudine, sentimento in chiave positiva in questo caso, ha rivelato ancora una volta la mia perversa attrazione verso tutto ciò che capovolge le prospettive ed annulla le certezze. Questo, perlomeno, è il brodo alterato in cui mi sono cotto, crescendo.

Conforto subito dichiarando che non mi arrampicherò, qui, sugli specchi di riflessioni artistiche che non mi sono proprie. Mi limito solo a ragionare della difficoltà di portare nel campo della cultura materiale questa capacità di mettersi in discussione.

Perché allora? Forse perché il cibo è una certezza? Perché mangiamo tutti, per nutrirci, e dunque il rapporto con il piatto passa attraverso codici e linguaggi difficili da ridiscutere? Sembrerebbe così, e in particolare la cosa riguarda la forma e le forme del cibo, visto che – perlomeno in Italia – è da qui che parte spesso la riflessione e la critica sulla cucina nuova. E alla fine è sempre meglio un piatto di tagliatelle, possibilmente fatte da mamma.

Capita, ricapita sempre più spesso (è successo anche all’Università di Pollenzo con brillanti studenti qualche giorno fa) che si discuta di nuova cucina con la paura di rovinare l’antico, la tradizione, l’origine, terrorizzati dal possibile rischio di mistificazione. Non volendo peraltro riconoscere al cuoco capace di produrre novità le qualità di un artigiano originale, o del creatore di idee nuove. Tutto questo evidentemente mette a rischio le certezze del nostro conosciuto. “Lo potevo fare anch’io” è il titolo di una bella dissertazione di Francesco Bonami sui temi dell’arte, e che come tale ho potuto comprendere solo in parte. Ma gli spunti sull’abbandono del pregiudizio sono tanti e buoni, così come mi è piaciuta l’idea di assaggiare le opere. Eppure anche Bonami sul cibo si ferma, e torna alle certezze. Citando polemicamente Ferran Adrià come esempio negativo. E qui mi fermo perché i conti non mi tornano. O forse non capisco io. Andrò a farmi un buon piatto di spaghetti.”

Quadri

Prima di partire per Venezia, avendo in programma una visita al Quadri, sono andato a cercare qualche racconto o recensione su internet ma ho trovato ben poco. Premesso che posso aver cercato in fretta e male, mi son comunque chiesto come mai quando una famiglia di ristoratori di fama mondiale, incluso un cuoco ancora giovane e per questo osservato da mezzo mondo, apre un locale su una delle due o tre piazze più belle del pianeta e realizza un progetto senza precedenti, in pochi corrono a vedere. Poi mi sono risposto: siamo in Italia. Ma soprattutto: gli Alajmo hanno scelto una posizione leggermente defilata rispetto al circo mediatico, nei loro ristoranti è garbatamente chiesto di non usare la macchina fotografica e questo locale è devvero caro. Almeno parzialmente mi sono risposto.

Poi sono entrato al Quadri, stanco dopo due giornate gastricamente intense e di appuntamenti di lavoro vari, e dunque non nella migliore disposizione d’animo. E sono rimasto a bocca aperta.

Perché la sala e le idee sono effettivamente straordinari. Per la capacità di mettere insieme vecchio e nuovo, rispetto del contesto e progettualità inedita. Identità locale (Venezia e laguna, soprattutto), cucina d’autore fuori dagli schemi, taglio sartoriale della griffe, per usare lo slogan di un importante consorzio di formaggio padano. La griffe di un marchio -quello di famiglia- che evidentemente vuole farsi vedere -e che forse qui riesce a farlo anche più di prima- per sottolineare un’idea di qualità. Padovana e veneziana, italiana.

Sedersi ad uno di questi tavolini con vista sulla piazza, ragionare di soaso (rombo della laguna), scartosso, carbonara di Max o qualche altro piatto de Le Calandre è ovviamente entusiasmante. E si vede che il menu è stato pensato con cura (scaricabile tutto da internet): un mix di territorio e dichiarazioni d’amore verso la tradizione regionale veneta e italiana e alternative innovative o garbatamente creative. Un menu che è un percorso vero. L’accoglienza poi è tra le migliori mai avute, con Stefano Munari che si muove con l’agilità e lo stile che raramente si vedono in giro. E i turisti stranieri gongolano.

La sensazione complessiva è di qualcosa che tende verso la perfezione. Uno sforzo immenso ma ripagato dal risultato. Un gioiellino di cui essere orgogliosi, tutti. In cui però per mangiare ci vogliono almeno 200euro più i vini. Ma non facciamo gli ipocriti perché era chiaro che fosse così. In alternativa l’abcQuadri del piano di sotto o ad uno dei tavolini del Caffé sulla piazza ci si può togliere lo sfizio di un piatto (nel primo caso) o di un sandwich (nel secondo) firmati Alajmo. Già perché seduti in piazza San Marco la legge proibisce di mangiare con forchetta e coltello.

About Venice

A Venezia è (e resta) difficile mangiare bene. Trovare ristoranti degni e non solo folclore spennaturisti. Detto questo è altrettanto vero che esistono pochi luoghi al mondo in cui il cibo e la tavola rappresentano un’esperienza così intensa e singolare. Anzi, mi viene da dire che un viaggio a Venezia non sia tale se non si completa con una buona sosta con le zampe sotto il tavolo.

Mi è capitato in passato, mi è capitato di nuovo, anche grazie alla scoperta di veneziani DOC come Enrico Fantasia, Gianni Bonaccorsi, Luca Di Vita. Che se ti portano per mano ti fanno scoprire un’altra città. E, a tavola, ti aiutano a comprendere più di una cosa. Insomma una cena alle Testiere o al Ridotto da’ soddisfazione quanto una visita al Museo del Settecento Veneziano.

Nel mio ultimo giro ho trovato dei tenerissimi calamaretti con castraure di Bruno Cavagnin, oltre all’ottimo baccalà mantecato e ai ravioli di zucca al nero di seppia. Al Ridotto invece un la minestra di pasta mista con crostacei e pesci di scoglio di gennariana memoria passava dal Tirreno all’Adriatico in una versione, con tubetti e canoce, molto ben studiata da Gianni. Quando si dice un’ispirazione rielaborata con criterio, visto che il sapore di questo piatto è inconfondibilmente legato al pesce di laguna, e quindi diverso da quello di Vico Equense.

Non male anche la fritturina del ristorante Wildner dell’omonima Pensione. Qui il giovane Luca, comincia a far pesare la sua versione, migliorando qualità e contenuti, in una bellissima veranda sulla Riva degli Schiavoni. Molte cose sono ancora da mettere a punto ma la partenza è buona e i prezzi anche.

Last but not least, per me, c’è sempre il Molino Stucky. Perché è bello e perché prendere ogni giorno un motoscafo dalla Giudecca per muoversi aggiunge, un po’ come il baccalà, una buona dose di gusto. Al Molino c’è un bar imperdibile, quello che mi piace pensare come l’Harry’s del terzo millennio :-) con vista sulla laguna. E al Molino hanno tolto il tonno dai menu, perché non sostenibile. Che mi sembra un buon segnale, soprattutto se fatto da un albergo di catena di questo tipo.

Paola Budel è tornata

Lo scrive Luigi Cremona sul suo blog: Paola Budel is back. Per molto tempo ci si era domandati dove fosse andata a finire e il suo ritorno sulle scene è sicuramente una notizia. Lo è perché Paola è una cuoca e appartiene al circolo esclusivo delle chef di alta cucina in Italia, lo è perché ha già dato grandi prove di sè, perché Paola è una allieva di Gualtiero Marchesi. E a guardar bene buona parte della grande e nuova élite culturale della cucina d’autore nostrana è in mano agli allievi di Marchesi (Cracco, Crippa, Oldani, Berton, Lopriore…). Lo è anche perché l’operazione è firmata da un significativo investimento di Bisol e perché il luogo è meraviglioso, a pochi metri da Burano. E Venezia, che negli ultimi tempi si era arricchita di nuove perle ne acquista una nuova.

Venezia, tremenda Venezia

Certo che se hai un po’ voglia di distrarti e pensare a cose futili a Venezia non ci devi proprio andare. Magari ti capita una giornata, anche d’inverno, con una luce come quella della foto e vieni improvvisamente riportato a contatto con il senso della vita e le emozioni. A Venezia difficile che qualcosa sia diverso dal bello o dallo straordinario, e tutto è accompagnato da quell’incredibile quantità d’acqua che c’è in laguna che anche simbolicamente ti risveglia l’inconscio.

E il gusto? Beh, qui tutto quello che fa riferimento ai sensi ha una dimensione diversa e riesce difficile fare ordine. A Venezia è tutto saporito, tutto un po’ umami…

Ne ho assaggiate di cose ma in questo momento mi è difficile raccontarle. Devo rimettere ordine tra il sacro e il profano.

Venezia, tremenda Venezia… :-)